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Una Figa in Vaticano.

La tentazioni di Adamo
Lo so potrebbe essere una brutta bestemmia, od una volgarità gratuita nei riguardi dell’intoccabile Vaticano, ma nella realtà è una cosa vera, anzi è una vera donna, la Signora Figa.
Va bene, ci si potrebbe anche scherzare e riderci sopra, perché alla fine sono proprio queste cose che scatenano le fantasie più perverse, ma nella realtà si sta parlando di una vera donna che ha avuto l’onore di essere stata nominata ambasciatrice presso la Santa Sede.
Finalmente!! Potrebbero arguire alcuni, finalmente anche Sua Eccellenza segue le orme del noto Silvio, finalmente anche Lui si da alla pazza gioia e porta una ventata di sano sesso in Vaticano. E invece no! Tiè!
La Signora Figa è quindi una donna timorata di Dio che risponde al nome di Maria Jesus Figa Lopez-Palop. Certo è un nome un po’ strano: che ci fanno Maria e Gesù assieme a Lopez-Polpa, anzi Lopez-Paolop? Misteri della fede…
Tanto è vero che nei documenti ufficiali, visto quel particolare (non nel senso che le hanno tirato su le gonne) la Signora si chiamerà Maria Jesus F. Lopez-Palop con buona pace per quanti, nel sentire quel nome, avrebbero infranto il 6° comandamento: non commettere atti impuri!
Quello che ho visto in Libia.
Moltissimi dei nostri inviati, se così possiamo chiamarli, li vediamo solo ed esclusivamente dalla parte delle forze ribelli; mai nessuno della Rai, del Giornale, del Corsera o La Repubblica che invece impieghino i propri inviati nelle fila di chi viene contestato per mostrare la realtà che vanno asserendo. D’altronde anche durante il massacro di Gaza non c’era nessuno dalla parte dei palestinesi a parte i soliti utopisti com Arrigoni o quelli che credono in valori che non siano solo il profitto. Qui uno scritto di Paolo Sensini in cui è descritto un suo recente viaggio in Libia, dove ha preso parte alla The Non-Governmental Fact Finding Commission on the Current Events in Libya. Leggetelo, ne vale la pena!
Quello che ho visto in Libia
«La guerra è pace. La libertà è schiavitù. L’ignoranza è forza»
George Orwell, La teoria e la pratica del collettivismo oligarchico, in 1984 (parte II, capitolo 9)
Sono ormai trascorsi più di due mesi da quando è scoppiata la cosiddetta rivolta delle popolazioni libiche. Poco prima, il 14 gennaio, a seguito di ampi sollevamenti popolari nella vicina Tunisia, veniva deposto il presidente Zine El-Abidine Ben Ali, al potere dal 1987.
È stata poi la volta dell’Egitto di Hosni Mubarak, spodestato anch’egli l’11 febbraio dopo esser stato, ininterrottamente per oltre trent’anni, il dominus incontrastato del suo Paese, tanto da guadagnarsi l’appellativo non proprio benevolo di faraone. Eventi che la stampa occidentale ha subito definito, con la consueta dose di sensazionalismo spettacolare, come «rivoluzione gelsomino» e «rivoluzione dei loti».
La rivolta passa quindi dalla Giordania allo Yemen, dall’Algeria alla Siria. E inaspettatamente si propaga a macchia d’olio anche in Oman e Barhein, dove i rispettivi regimi, aiutati in quest’ultimo caso dall’intervento oltre confine di reparti dell’esercito dell’Arabia Saudita, reagiscono molto violentemente contro il dissenso popolare senza che questo, tuttavia, si tramuti in una ferma condanna dei governi occidentali nei loro confronti. Solo il re del Marocco sembra voler prevenire il peggio e il 10 marzo propone la riforma della costituzione.(un caso l’attentato di oggi? ndr.)
Due mesi in cui, una volta poste in standby le vicende di Tunisia ed Egitto, tutti i grandi media internazionali hanno concentrato il loro focus sull’«evidente e sistematica violazione dei diritti umani» (Risoluzione 1970 adottata dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU il 26 febbraio 2011) e sui «crimini contro l’umanità» (Risoluzione 1973 adottata dal Consiglio di Sicurezza il 17 marzo 2011) perpetrati da Gheddafi contro il «suo stesso popolo».
Una risoluzione, quest’ultima, priva di ogni fondamento giuridico e che vìola in maniera patente la Carta dell’ONU. Si tratta insomma di un vero e proprio pateracchio giurisprudenziale in cui una violazione ne richiama un’altra: la delega agli Stati membri delle funzioni del Consiglio di Sicurezza è a sua volta collegata alla no-fly zone, che è anch’essa illegittima al di là di come viene applicata, perché l’ONU può intervenire ai sensi dell’articolo 2 e dello stesso Capitolo VII della Carta di San Francisco solo in conflitti tra Stati, e non in quelli interni agli Stati membri, che appartengono al loro «dominio riservato». Ma questa è storia vecchia: la prima no-fly zone (anch’essa illegale) risale al 1991, dopo la prima guerra all’Iraq, da cui si può far decorrere la crisi verticale del vecchio Diritto Internazionale sostanzialmente garantito dal bipolarismo Est-Ovest scomparso a cavallo tra i decenni Ottanta e Novanta del secolo scorso.
Ma torniamo ai momenti salienti della cosiddetta primavera araba. Se nel caso tunisino ed egiziano le cancellerie occidentali si erano dimostrate molto prudenti circa i possibili sviluppi politici, economici e militari di questi Paesi, con il riacutizzarsi dell’antagonismo storico tra la Cirenaica da un lato, dove si concentrano le maggiori ricchezze petrolifere della Libia, e la Tripolitania e il Fezzan dall’altro, potenze come Francia, Stati Uniti e Regno Unito si trovano subito concordi nel sostenere senza se e senza ma i rivoltosi in buona parte composti da islamisti radicali (particolarmente numerosi sarebbero i fratelli musulmani provenienti dall’Egitto, gli jihadisti algerini e gli afghani) capeggiati da due alti dignitari del passato governo libico come l’ex ministro della Giustizia Mustafa Mohamed Abud Al Jeleil e dall’ex ministro dell’Interno, il generale Abdul Fatah Younis, oltre che da nostalgici di re Idris I, deposto militarmente da Gheddafi e dagli ufficiali nasseriani il 1° settembre 1969.
O, per essere ancora più precisi, come continua sistematicamente a ripetere il colonnello fin dall’inizio nei suoi accalorati speech alla nazione, una rivolta monopolizzata in gran parte da appartenenti ad Al-Qāida. Già prima che l’insurrezione infiammasse la Cirenaica, tuttavia, manipoli di truppe scelte occidentali, con alla testa gli inglesi dei SAS, operavano segretamente in loco, con lo scopo di addestrare e organizzare militarmente le fila dei ribelli. Contemporaneamente, in maniera non ufficiale, alcuni Paesi occidentali, Francia e Gran Bretagna in primis, rifornivano gli insorti di armi e automezzi che avrebbero dovuto consentire loro di marciare vittoriosamente fino a Tripoli.
Così, subito dopo i primi momenti in cui filtrano notizie piuttosto confuse e contraddittorie circa gli sviluppi della situazione sul campo, la Francia, alle ore 17,45 di sabato 19 marzo, due giorni dopo la promulgazione della Risoluzione del Consiglio di Sicurezza ONU 1973, rompe gli indugi e anticipa le mosse della Coalizione dei volenterosi, in accordo con USA e Gran Bretagna, cui si aggiungono presto Spagna, Qatar, Emirati, Giordania, Belgio, Norvegia, Danimarca e Canada.
Per «proteggere la popolazione civile» di Bengasi e Tripoli dalle «stragi del pazzo sanguinario Gheddafi», il presidente francese Nicolas Sarkozy impone una no-fly zone ma – per carità, questo no – senza alcuna intenzione di detronizzare il dittatore, ponendosi così di fatto come il capofila con l’operazione Alba dell’Odissea, che ha portato finora a compimento più di ottocento missioni d’attacco.
È quanto assevera anche l’ammiraglio americano William Gortney, secondo cui il colonnello «non è nella lista dei bersagli della coalizione» pur non escludendo che possa venire colpito «a nostra insaputa». Anche il capo di Stato Maggiore britannico, sir David Richards, nega che l’uccisione di Gheddafi sia un obiettivo della coalizione perché la risoluzione dell’ONU «non lo consentirebbe».
La scelta degli alleati non può dunque che essere per i ribelli, così fotogenici nelle riprese mentre sparacchiano in aria con i loro mitragliatori pesanti montati su pick-up a beneficio delle telecamere. Tuttavia la loro entità si è mostrata subito risibile, limitata e di poco peso nel Paese. Anche addestrata e armata fino ai denti, quella degli insorti rischia di rimanere un’armata Brancaleone che continuerà a infrangersi contro lo scoglio rappresentato dall’esercito fedele a Gheddafi, senza oltretutto godere dell’appoggio di larga parte della popolazione. E portare a termine una rivolta popolare, senza essere sostenuti dall’appoggio del popolo, risulta impresa assai ostica oltre che originale.
Anche l’istituzione su loro richiesta di un fantomatico governo ombra denominato pomposamente Consiglio Nazionale di Transizione (CNT) e prontamente riconosciuto come legittimo dal ministro degli Esteri italiano Franco Frattini, ha fatto sì che alcuni Stati occidentali inviassero ufficialmente elementi di spicco dei propri eserciti con il compito di addestrare gli insorti. Inoltre è stato reso ufficiale anche il rifornimento di armi e mezzi contro pagamento in petrolio, che prima avveniva segretamente.
La loro forza, come hanno scritto giornalisti inglesi, «sta interamente nel sostegno, politico e militare, di cui godono sul piano internazionale». Quanto a formare un governo funzionante, e soprattutto a conquistare qualche parvenza di vittoria – anche sotto il riparo della no-fly zone – ne sono del tutto incapaci.
Insomma, un’operazione dal sapore epico e romantico soltanto nel nome, ma nella sostanza un attacco militare in piena regola alla sovranità della Gran Jamahiriya Araba Libica Socialista.
I motivi della guerra raccontati dai grandi mezzi di comunicazione
Ma che cosa ha potuto realmente giustificare, al di là delle fumisterie mediatiche che sono state riversate in grandi dosi sulla pubblica opinione, la pretesa di una simile ingerenza armata contro il governo di Tripoli travestita da intervento umanitario?
Come sempre accade in simili casi, il tutto ha preso l’abbrivio da una potente campagna mediatica in cui, senza alcuna evidenza di prove ma solo in virtù di una ripetizione a nastro dello stesso messaggio, si è stabilito fin dal principio che «Gheddafi aveva fatto bombardare gli insorti a Tripoli» uccidendo «più di 10.000 persone». Una notizia di cui inizialmente si sono fatti latori i due più importanti media del mondo arabo: Al Jazeera e Al Arabiya, considerati una sorta di CNN del Vicino e Medio Oriente. Parliamo quindi d’informazioni provenienti direttamente dall’interno di quel mondo arabo controllato rispettivamente dalle aristocrazie sunnite del Qatar e di Dubai.
Dopo l’iniziale lancio informativo, il numero di 10.000 persone fatte bombardare da Gheddafi» è immediatamente rimbalzato su tutti i media internazionali fino a diventare un fatto indiscutibile quasi per postulato, anche se non vi era nessuna immagine o prova tangibile che potesse suffragare una simile carneficina. A supporto di tale onirismo informativo venivano poi presentate le immagini di supposte fosse comuni in cui erano stati seppelliti nottetempo, sempre secondo i corifei della disinformazione di massa, coloro che erano periti sotto i bombardamenti ordinati dal dittatore pazzo e sanguinario. Tuttavia, com’è poi emerso quasi subito, si trattava d’immagini fuorvianti e decontestualizzate, visto che ciò che si mostrava al pubblico occidentale erano le riprese di un cimitero di Tripoli dove si espletavano le normali operazioni di inumazione dei deceduti.
Ma come ogni spin doctor sa benissimo, ciò che conta per plasmare l’opinione pubblica è la prima impressione che essa ne riceve, e che imprime il messaggio nel cervello in maniera indelebile. È successo per le narrazioni degli eventi storici più importanti, ultimo dei quali è senz’ombra di dubbio il capolavoro spettacolare passato alla storia come gli attentati terroristici di Al-Qāida dell’11 settembre 2001.
Non poteva dunque che essere così anche in questo caso, dove la prima versione mediatica propalata con solerzia gobbelsiana ha ripetuto in continuazione la favola dei 10.000 morti e del genocidio compiuto dal dittatore pazzo e sanguinario senza nessuna evidenza di prove, ma facendo leva unicamente sulla pura e ininterrotta circolazione dello stesso messaggio.
Fin da quei primi momenti, il mantra recitato infinite volte nelle redazioni del Big Brother è stato unicamente questo, diventando da subito la Versione Ufficiale. Non vi era più dunque nessuno spazio residuo per il dubbio, almeno sui grandi circuiti dell’informazione, giacché il fatto conclamato s’imponeva da sé, quasi per motu proprio. Il resto era solo dietrologia o, horribile dictu, nient’altro che complottismo.
Un altro elemento che ha giocato un ruolo decisivo, anche in termini di avallo dei conflitti bellici degli anni passati, è stata poi la pressoché totale adesione della sinistra in quasi tutte le sue declinazioni – da quella moderata fino alle propaggini più estreme – alla Versione Mediatica Ufficiale, che nel caso italiano comprendeva anche la voce infondata su ipotetici campi di concentramento o lager destinati agli immigrati neri provenienti dalle zone subsahariane. Una specie di riflesso pavloviano che ha portato, senza alcun tipo di vaglio o discernimento critico e, cosa ancora più grave, senza neppure porsi la questione di chi fossero realmente gli insorti di Bengasi, a fornire una sorta di tacito avallo alle operazioni dei manovratori. Il che, di fatto, ha agevolato la strada a quei poteri internazionali che lavoravano da tempo per un intervento militare contro la Libia.
Partenza per la Libia
Per tutte queste ragioni, o forse sarebbe meglio dire per la mancanza di esse, una volta offertami la possibilità dal tenore Joe Fallisi di recarmi a Tripoli per verificare insieme a un gruppo di autentici volenterosi denominati The Non-Governmental Fact Finding Commission on the Current Events in Libya come stavano realmente le cose, non ci ho pensato due volte e ho deciso immediatamente di prender parte alla spedizione.
Dopo essere arrivati nel tardo pomeriggio del 15 aprile a Djerba con un volo da Roma in ritardo di più di tre ore sull’orario prefissato, il viaggio in territorio libico ci ha presentato subito la dura realtà di uno scenario militare costellato da centinaia di posti di blocco che coprivano l’intero tracciato dal confine tunisino fino a Tripoli. Ma una volta giunti alle porte della capitale il contesto che si profilava angoscioso in quelle prime lunghe ore di viaggio muta di colpo in uno scenario di piena normalità. E anzi troviamo una metropoli perfettamente in ordine, bella, molto ben tenuta e senza alcun segno tipico di uno stato di guerra incipiente. Già questo primo impatto contraddiceva in nuce i racconti dei giornalisti embedded che avevano descritto con sussiego gli scenari caotici, foschi e sanguinolenti delle stragi volute dal raìs.
La prima sensazione che ho avuto la mattina del 16 aprile mentre attraversavamo le strade di Tripoli diretti verso il sud-est del Paese, è stata quella di un forte appoggio popolare nei confronti di Gheddafi, un appoggio pieno, passionale e incondizionato, e non certo di risentimento e ostilità della popolazione nei suoi confronti come strillavano da settimane i media. Del resto, come fa giustamente rilevare l’analista politico Mustafà Fetouri, «una delle conseguenze inattese dell’intervento militare in Libia è quella di aver rafforzato la credibilità del regime conferendogli ancora più forza e legittimità nelle zone sotto il suo controllo. In più ora, dopo l’aggressione, ha ripreso massicciamente a battere il vecchio tasto sull’antimperialismo».
Arrivati nella città di Bani Waled, a circa 125 km a sud di Tripoli all’interno di un vasto distretto montagnoso, la nostra delegazione viene accolta calorosamente dai responsabili della locale Facoltà di Ingegneria Elettronica. Questo territorio ospita la più grande tribù della Libia, i Warfalla o Warfella, che con i suoi 52 Clan e all’incirca un milione e cinquecentomila effettivi rappresenta la più grande tribù della Tripolitania, dove si trova il 66% della popolazione libica (nella Cirenaica vive il 26-27%, il resto è nel Fezzan), estendendosi anche nel distretto di Misratah (Misurata) e, in parte, in quello di Sawfajjn.
Ci rechiamo poi nella piazza centrale della città, dov’è in corso una manifestazione contro l’aggressione della coalizione occidentale nei confronti della Libia. Qui la sensazione avvertita qualche ora prima attraversando la capitale diventa realtà palpabile, e le dimostrazioni d’appoggio incondizionato a favore del leader libico non danno adito ad alcun possibile fraintendimento. Lo slogan che ci accompagna lungo tutto il nostro percorso è Allah – Muammar – ua Libia – ua bas! ‘(Allah, Gheddafi, Libia e basta!), che è diventata una specie di colonna sonora scandita un po’ dovunque. Mentre, tra i nemici della Libia, Sarkozy è senz’altro quello più preso di mira e contro il quale si indirizzano la maggior parte degli sberleffi («Down, down Sarkozy!»). Seguono poi gli altri leader occidentali che si sono distinti nell’aggressione umanitaria, come il surrealistico Premio Nobel Barck Obama, soprannominato per l’occasione U-Bomba, e via via tutti gli altri.
Veniamo poi condotti in un ampio complesso abitativo circondato da mura, dove siamo accolti dai capi tribù dei Warfalla, tutti quanti fasciati nei loro tradizionali abiti. Aiutati da interpreti ma anche da un anziano capo clan che parla un buon italiano, ci viene ribadita la stretta alleanza della tribù con Gheddafi e la loro completa determinazione a lottare, nel caso malaugurato fossero invasi militarmente, «fino alla fine». «Se decidessero di invadere la Libia, sapremo noi come rispondere», ci dice uno dei capo tribù brandendo in alto con le sue nodose mani un fiammante kalashnikov. Non c’è nessuna tracotanza nelle sue parole, ma solo la fermissima determinazione a non permettere che il loro Paese venga gettato nel caos così com’è avvenuto per il Kosovo, l’Afghanistan e l’Iraq, che dall’occupazione militare anglo-americana sono diventati forse i luoghi più pericolosi della terra e in cui si può morire semplicemente andando al mercato, a un ristorante, in banca o anche solo camminando per strada. Questi i risultati a quasi un decennio dai primi interventi umanitari e dalle conseguenti operazioni di Peacekeeping, che oggi qualche zelante esportatore di democrazia vorrebbe replicare pure in Libia…
Dovunque ci si muova, sia a Tripoli che nelle sue immediate periferie, la domanda che ci viene continuamente rivolta dalle persone con cui veniamo in contatto è la seguente: «Perché Francia, Inghilterra e Stati Uniti ci bombardano? Che cosa gli abbiamo fatto? Perché l’Italia, dopo aver stipulato col nostro Paese un trattato di amicizia e di non aggressione, ci ha fatto questo?».
Domande sacrosante, a cui le aggressioni militari anglo-americane degli anni scorsi forniscono una risposta fin troppo scontata.
Nei giorni successivi continuiamo le nostre esplorazioni visitando scuole di vario ordine e grado a Tripoli e dintorni, dove ritroviamo le stesse manifestazioni di appoggio e partecipazione. Ciò che stupisce in questi ragazzi, che la stampa occidentale vorrebbe dipingere come scarsamente emancipati rispetto ai nostri selvaggi con telefonino, è la piena consapevolezza di ciò che sta avvenendo ai danni del loro Paese e il pericolo che incombe sulle sorti della Libia nel caso venisse invasa militarmente. Ma nei loro volti non vi è nessuna arrendevolezza o rassegnazione al fato, quanto invece una ferma volontà di resistere con ogni mezzo. E anche la voglia di tramutare la pesantezza delle circostanze, per quanto possibile, in momenti di passione condivisa.
Dai sobborghi di Tripoli, dove incontriamo le persone sulle strade, nelle loro abitazioni o sui luoghi di lavoro, passando per i medici feriti durante i bombardamenti e attualmente degenti in ospedale fino agli assembramenti nel cuore pulsante della città, dovunque è la stessa disposizione d’animo verso la leadership del proprio Paese e la situazione che, giorno dopo giorno, viene angosciosamente profilata dai bollettini radio-televisivi.
Unico elemento davvero anomalo e per molti versi stupefacente, soprattutto perché stiamo parlando di uno dei grandi Paesi produttori di petrolio al mondo, sono le file di chilometri e chilometri di automobili incolonnate ai bordi delle strade, e che cominciano già a formarsi nelle prime ore della notte, in attesa del proprio turno di rifornimento alle stazioni di servizio. Anche questo è un paradosso, uno dei tanti paradossi insensati di cui ogni guerra è prodiga.
Muovendoci in lungo e in largo per la capitale non riscontriamo nessun segno di bombardamenti contro la popolazione libica da parte di Gheddafi, che è poi il motivo scatenante per cui sono state promulgate le due Risoluzioni ONU che hanno di fatto aperto la strada all’aggressione militare. Eppure per fare più di «10.000 morti», soprattutto quando si parla di bombardamenti in una grande città come Tripoli, bisogna necessariamente aver prodotto gravi danni urbanistici e lasciato quantità e quantità di indizi disseminati per le strade. Ma questo è un dettaglio che poco importa ai signori dell’informazione: ciò che conta è il panico virtuale creato ad arte, che però sta già sortendo effetti concretissimi.
Gli unici riscontri tangibili di bombardamenti li troviamo invece in alcune località non distanti dai sobborghi di Tripoli, a Tajoura, Suk Jamal e Fajlum, dove a seguito di ripetuti bombardamenti NATO hanno trovato la morte oltre quaranta civili. Lo verifichiamo direttamente in loco, quando ci rechiamo nella fattoria in cui sono state sganciate alcune bombe che hanno causato ingenti danni agli edifici prospicienti, e in cui sono ancor ben visibili i frammenti degli ordigni deflagrati. Ne avremo convalida all’ospedale civile di Tajoura, dove ci vengono mostrati dalle autorità mediche i documenti ufficiali che attestano i decessi causati dalle bombe sganciate dalla Coalizione.
La conferma ufficiale della situazione che si è venuta determinando sul terreno ce la fornisce in un incontro all’Hotel Rixos anche Moussa Ibrahim, portavoce del governo libico, che ci illustra la posizione del governo a questo proposito. Dopo aver tracciato un quadro sugli sviluppi bellici e diplomatici negli ultimi due mesi, Ibrahim si domanda perché gli organismi internazionali preposti non abbiamo consentito, prima di dare inizio ai bombardamenti, l’invio in Libia di una missione d’inchiesta per verificare i fatti, come richiesto da Gheddafi a più riprese, e accertare di persona i seguenti punti:
- la reale dinamica dei fatti su come è nata la ribellione, fin da subito armata;
- quali sono i suoi veri obbiettivi, se per caso anche secessionisti al di là della bandiera prescelta e del suo apparente leader, l’ex ministro della Giustizia libico Jelil;
- chi ha bombardato cosa;
- fino a che punto e attraverso quali canali i ribelli si sono armati;
- quante sono le vittime civili dei presunti bombardamenti di Gheddafi e di quelle dei cosiddetti volenterosi, e così via.
«Eppure – insiste Ibrahim – l’invio in Libia di una simile delegazione per verificare come stanno veramente le cose avrebbe avuto un costo inferiore a quello di un singolo missile da crociera Tomahawk (dal costo di $1,400,000, ndr), e di questi missili ne sono stati gettati oltre 250 (pari a $350.000.000, ndr) in questi giorni. Perché questa ipocrisia dell’Occidente nei nostri confronti? Perché non è stata imposta una ‘no-fly zone’ anche a Israele quando ha bombardato Gaza per oltre un mese senza che nessun Paese avesse nulla da eccepire? Perché due pesi e due misure, quando è ormai stato appurato che non abbiamo mai bombardato, e lo ribadisco in maniera fermissima, la nostra popolazione?».
Ma una commissione internazionale di osservatori, nonostante le reiterate richieste da parte delle autorità libiche, non è mai stata inviata e si è continuato a salmodiare l’ormai trita versione del dittatore sanguinario Gheddafi bombardatore e oppressore del suo stesso popolo. L’Occidente, o quel ristretto novero di Paesi che si è arrogato abusivamente il diritto di parlare a nome del mondo intero, ha anche rifiutato l’offerta di Chavez di fare da mediatore per la Libia, nonostante essa fosse sostenuta da molti Paesi latino-americani e dalla stessa Unione Africana.
Possiamo verificare di persona la sera del 17 aprile a Bāb al ‘Azīzīyah, la residenza-bunker di Gheddafi, quanto siano fuorvianti le informazioni che circolano sui grandi media occidentali a proposito della popolarità di Gheddafi tra la gente di Tripoli e più in generale della Libia; nonostante gli strettissimi controlli delle forze di sicurezza, siamo gli unici occidentali a poter aver accesso al parco antistante il bunker del raìs. Lo spettacolo che si apre davanti ai nostri occhi entrando nel parco dove si trova la vecchia abitazione di Gheddafi bombardata dagli americani il 15 aprile 1986 – in cui tra l’altro perse la vita sua figlia adottiva Hana – e lasciata volutamente in quello stato a mo’ di testimonianza storica, contraddice al primo colpo d’occhio le versioni propagandistiche circolanti in Occidente. Qui ogni sera, da quando sono iniziati i bombardamenti umanitari contro la Jamahiriya Araba Libica, va in scena un grande happening animato da migliaia di persone, dai neonati per cui è approntato un ampio kindergarten fino agli anziani che si ritrovano con i loro narghilè sotto una tenda ricolma di cuscini e tappeti. Un grande palco montato davanti alla vecchia casa del colonnello è il proscenio sul quale si alternano musica, parole, proclami e intrattenimento per riscaldare un’atmosfera che si fa di giorno in giorno sempre più plumbea.
Il senso vero di questo assembramento, di cui i mezzi di comunicazione occidentale si guardano bene dal dare conto, «è la vicinanza e l’affetto dei libici nei confronti di brother Gheddafi», come mi spiega un giovane e colto ingegnere elettronico che ci guida lungo tutta la nostra visita; un «fratello e un padre» verso il quale è percepibile l’affetto che gli è tributato dalla sua gente. Per questo si ritrovano lì tutte le sere, per fargli sentire con la loro viva presenza tutto il calore e far scudo con i loro stessi corpi a nuove possibili incursioni dopo quella del 21 marzo 2011, incursioni ripetute anche la sera del 25 aprile, quando un edificio adibito ad uso uffici situato nel complesso di Bāb al ‘Azīzīyah è stato distrutto da un missile da crociera Tomahawk lanciato da un sottomarino della Royal Navy su coordinate fornite dalle forze speciali di Londra infiltrate anche nella capitale.
L’ultimo appuntamento con membri del governo è con il vice ministro degli Esteri, Khaled Kaim, che con grande dovizia di particolari ripercorre istante per istante gli sviluppi della crisi, dalla presenza riscontrata fin dall’inizio dalle autorità libiche di vari elementi dei fratelli musulmani e altri jihadisti stranieri tra i rivoltosi di Bengasi, alla strana sincronia con cui, il 26 febbraio, il personale di diverse ambasciate presenti a Tripoli è partito senz’alcuna spiegazione plausibile, fino alle ragioni geopolitiche che hanno fatto sì che la Libia diventasse un obbiettivo appetibile per le mire occidentali già da molti anni.
Kaim ci mette anche a disposizione tutto il materiale video e le rassegne stampa internazionali che coprono interamente la sequenza temporale presa in esame, in modo da poterle vagliare nella sua ampiezza per poi emettere un giudizio obiettivo sui fatti. Il suo auspicio, rivolto idealmente all’opinione pubblica occidentale, è quello di non farsi ipnotizzare dall’informazione ad usum delphini diffusa in questi mesi dai grandi media, ma di guardare la sostanza del contenzioso tra governo e ribelli che comunque, secondo la sua valutazione dell’intervento militare NATO nelle questioni interne libiche, ha reso più complicato e dilazionato nel tempo un possibile processo di pacificazione nazionale.
Non ci resta, prima di congedarci, che incontrare l’ultima personalità di rilievo in programma sulla nostra agenda, monsignor Giovanni Martinelli, il vescovo di Tripoli, uno degli ultimi tra gli italiani rimasti in città dopo l’esplosione della crisi che, insieme alla combattiva rappresentante di import-export italo-libica Tiziana Gamannossi, ci conferma nel corso del colloquio quanto già avevamo accertato durante la nostra missione d’indagine: ossia che «il governo libico non ha bombardato la sua popolazione, ma che gli unici morti a causa dei bombardamenti sono stati provocati dalla NATO a Tajoura; che l’unica possibile soluzione del contenzioso è il dialogo, non le bombe»; che «i ‘ribelli di Bengasi’ si sono macchiati di gravi crimini gettando il Paese nel caos».
Martinelli aggiunge anche che l’attacco militare alleato nei confronti della Libia è ingiusto e sbagliato sia da un punto di vista tattico che da quello strategico, perché «le bombe rafforzeranno Gheddafi e gli permetteranno di vincere». Il suo è un giudizio ponderato e sofferto, espresso tra l’altro da un uomo che non nutre nessun favore aprioristico nei confronti del colonnello, ma del quale riconosce con equilibrio meriti e demeriti nella sua conduzione del Paese. «Un uomo dal carattere fortissimo e deciso – soggiunge padre Martinelli – che ha favorito, da quando ha iniziato la sua opera di governo, la libertà di movimento, la libertà politica, la libertà religiosa e che ha permesso che in Libia convivessero pacificamente ben cinque confessioni religiose». «In oltre quarant’anni – conclude il vescovo di Tripoli congedandosi da noi -, non ho mai subito alcuna provocazione da parte di nessuno, e la nostra comunità convive serenamente con tutte le altre. Trovatemi un altro luogo in cui tutto ciò sia possibile». E come dargli torto, visto il panorama attuale del Vicino Oriente.
Se in effetti vogliamo guardare la sostanza e non la propaganda bellica che alligna stabilmente sui media ai danni della Libia, l’aspettativa di vita dei suoi abitanti si aggira intorno ai 75 anni di età, un vero record considerando che in alcuni Paesi del continente africano la media si aggira intorno ai 40 anni. Quando Gheddafi prese il potere, il livello di analfabetismo in Libia era del 94%, mentre oggi oltre il 76% dei libici sono alfabetizzati e sono parecchi i giovani che frequentano università straniere. La popolazione del Paese, al contrario dei vicini egiziani e tunisini, non manca di alimenti e servizi sociali indispensabili. Prima dell’attacco franco-britannico, inoltre, era stato varato dal governo libico un programma di edilizia popolare agevolata in cui erano stati investiti oltre due miliardi di dinari, che doveva portare alla costruzione di circa 647 mila case in tutto il Paese per una popolazione complessiva di sei milioni di abitanti. Un progetto che naturalmente ora è fermo, e che verrà riavviato – se mai lo sarà – chissà quando.
A questo punto il quadro che abbiamo davanti ai nostri occhi ha assunto dei contorni piuttosto delineati; sarebbe interessante proseguire verso la parte orientale del Paese, dove si stanno consumando gli scontri più aspri, ma per ragioni di sicurezza ci viene vivamente sconsigliato di intraprendere un simile viaggio. Anche così, tuttavia, vi sono gli elementi necessari per capire che le Risoluzioni 1970 e 1973 promulgate dal Consiglio di Sicurezza sono destituite di ogni fondamento. E dunque che le ragioni di questo intervento armato vanno ricercate altrove.
L’incarico di riferire minuziosamente tutto ciò che è stato raccolto nel corso della missione viene affidato a David Roberts, portavoce del British Civilians For Peace in Libya, durante la conferenza stampa aperta a tutti i media internazionali presenti a Tripoli che si tiene nel lussuoso Hotel Rixos, in cui viene anche proiettato sullo schermo un documentario montato a tempo di record dal bravo videoreporter e attivista inglese Ishmahil Blagrove; la conferenza stampa è anche l’occasione per rendere noti ai media tutti i documenti, i riscontri probatori e le evidenze raccolti dalla Fact Finding Commission durante le sue indagini. Dopo l’esposizione dei risultati cui la commissione è pervenuta, si procede a evidenziare tutte le omissioni e le manipolazioni vere e proprie compiute dai media fin dall’inizio della guerra.
La cosa non è affatto gradita ad alcuni giornalisti e mezzobusti delle grandi testate inglesi e americane presenti in sala, i quali sentendosi chiamati in causa per le evidenti distorsioni a cui si erano prestati durante i loro servizi informativi e che le nostre ricerche sul campo mettevano giustamente a nudo, reagiscono in maniera indispettita e rabbiosa negando di aver compiuto un lavoro sporco e assicurando anzi di aver scrupolosamente fornito tutte le informazioni in loro possesso.
Una patente menzogna, visto e considerato che con i nostri pochi mezzi a disposizione avevamo quasi totalmente decostruito il castello montato per aria, è proprio il caso di dire, nei mesi precedenti. E che per un attimo, ancora infervorato da ciò che avevo visto e udito in quei giorni, ho pensato di comunicare alla zelante bombardatrice della Libia Anna Finocchiaro, capogruppo al Senato del PD, che sedeva una fila dietro di me sull’aereo che mi riconduceva da Tunisi a Roma. Ma sarebbe stata tutta fatica inutile, mi sono poi subito detto, vista la determinazione assunta in prima persona dalla sinistra etimologica nel condurre a un punto di non ritorno questa sporca guerra.
Come notava invero il grande scrittore Mario Mariani, «i giornalisti e i politici non debbono intendersi di niente e debbono far conto d’intendersi di tutto». L’unica cosa che davvero conta per essi, è quella di possedere un buon fiuto per sapere in quale direzione is Blowing the Wind…
Le vere ragioni della guerra alla Libia
Ecco che così, a poco a poco, dopo aver verificato in prima persona come stavano realmente le cose sul posto, e grazie alla rete e ai molteplici siti o blog interessati a fare vera informazione e non propaganda, incominciavano a farsi largo analisi serie e documentate sull’eziologia dei fatti libici. E si facevano sempre più strada quelli che, verosimilmente, sembravano i reali motivi di un intervento occidentale contro la Libia pianificato da tempo. Ossia, in primo luogo, impossessarsi degli enormi giacimenti di petrolio libici, stimati in circa 60 miliardi di barili e i cui costi di estrazione sono tra i più bassi del mondo, senza contare le enormi riserve di gas naturale valutate in circa 1.500 miliardi di metri cubi.
Ma non è tutto. Dal momento in cui Washington ha cancellato la Libia dalla lista di proscrizione degli Stati canaglia, Gheddafi ha cercato di ricavarsi uno spazio diplomatico internazionale con ripetuti incontri in patria e nelle maggiori capitali europee. Nel 2004, per esempio, Tony Blair, allora Primo Ministro britannico, è stato il primo leader occidentale a recarsi in Libia, divenuta così frequentabile. E nel dicembre 2007 Parigi si è presa la briga di stendere il tappeto rosso nel parco del Marigny Hotel, dove il colonnello aveva piantato la sua tenda. Cosa è cambiato da allora per giustificare l’accanimento di Gran Bretagna e Francia contro il regime di Tripoli quando prima andavano d’amore e d’accordo?
La risposta è stata data dal quotidiano statunitense The Washington Times. Questo stesso giornale ha rivelato lo scorso marzo che sono i 200 miliardi di dollari dei fondi sovrani libici a fare andare in fibrillazione gli occidentali. Perché tale è il denaro che circola nelle Banche Centrali, in particolare in quelle britanniche, statunitensi e francesi. In preda a una crisi finanziaria senza precedenti, Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti vogliono a tutti i costi impossessarsi di questi fondi sovrani. «Queste sono le vere ragioni dell’intervento della NATO in Libia», afferma Nouredine Leghliel, analista borsistico algerino trasferitosi in Svezia, che è stato uno dei primi esperti a sollevare la questione. Questi 200 miliardi di dollari, di cui gli occidentali non parlano che a mezza voce, sono al momento «congelati» nelle Banche Centrali europee. Il motivo? Che questa vera e propria montagna di denaro sia associata alla famiglia Gheddafi, «cosa che è totalmente falsa», come sottolinea Leghliel, il che però autorizza i pescecani della finanza decotta internazionale a voler stornare il gruzzolo nei loro caveau.
«Più continua il caos, più la guerra dura e più gli occidentali traggono profitto da questa situazione che torna a loro vantaggio», chiarisce ancora Leighliel. Il caos nella regione farebbe comodo a tutto l’Occidente. I britannici, soffocati dalla crisi della finanza, troverebbero così le risorse necessarie. Gli statunitensi, per mire squisitamente militari, si installerebbero in modo definitivo nella fascia del Sahel e la Francia potrà ricoprire il ruolo di subappaltatore in questa regione da lei considerata come una sua appendice.
L’assalto ai fondi sovrani libici, com’è facilmente prevedibile, avrà un impatto particolarmente forte in Africa. Qui la Libyan Arab African Investment Company ha effettuato investimenti in oltre 25 Paesi, 22 dei quali nell’Africa subsahariana, programmando di accrescerli nei prossimi cinque anni soprattutto nei settori minerario, manifatturiero, turistico e in quello delle telecomunicazioni. Gli investimenti libici sono stati decisivi nella realizzazione del primo satellite di telecomunicazioni della Rascom (Regional African Satellite Communications Organization) che, entrato in orbita nell’agosto 2010, permette ai Paesi africani di cominciare a rendersi indipendenti dalle reti satellitari statunitensi ed europee, con un risparmio annuo di centinaia di milioni di dollari.
Ancora più importanti sono stati gli investimenti libici nella realizzazione dei tre organismi finanziari varati dall’Unione africana: la Banca Africana d’Investimento, con sede a Tripoli; il Fondo Monetario Africano (FMA), con sede a Yaoundé, la capitale del Camerun; la Banca Centrale africana ad Abuja, la capitale nigeriana. Il Fondo sarà finanziato principalmente da Paesi africani e, a quanto si è appreso, l’Algeria darà 14,8 miliardi di dollari USA, la Libia 9,33, la Nigeria 5,35, l’Egitto 3,43 e il Sud Africa 3,4.
La creazione del nuovo organismo è (o era) ritenuta una tappa cruciale verso l’autonomia monetaria del continente. Infatti, secondo le Nazioni Unite per l’Africa, il peso sulla bilancia commerciale mondiale africana si è contratto notevolmente negli ultimi venticinque anni, passando dal 6% al 2%;
effetto dovuto, sempre secondo le Nazioni Unite, alla presenza di una cinquantina di monete nazionali non convertibili tra di loro. Ciò rappresenterebbe un freno agli scambi commerciali tra gli Stati africani, perciò il principale compito del FMA è promuovere gli scambi commerciali creando il Mercato Comune Africano. Un passo necessario alla stabilità finanziaria e al progresso dell’economia del continente che decreterebbe inoltre la fine del Franco CFA, la moneta che sono costretti a usare 14 Paesi, ex-colonie francesi.
Quanto appena esposto potrebbe essere la vera ragione, o una delle maggiori motivazioni, che hanno causato l’intervento armato, occulto prima, dichiarato ed esplicito dopo, delle vecchie potenze coloniali del Continente Nero: Francia, Regno Unito e Stati Uniti. Comunque sia, il congelamento dei fondi libici e la conseguente guerra assestano un colpo durissimo all’intero progetto.
Ma se l’Occidente vuole veramente cacciare Gheddafi per appropriarsi della Libia e delle sue risorse, dovrà rassegnarsi presto a cambiare strategia. In altre parole dovrà far scendere i propri eroici soldati dagli aerei e dalle navi, dove bombardano comodamente seduti con in mano il joystic’ della playstation e mandarli in terra di Libia, a combattere, ammazzare e venire a loro volta ammazzati. A quel punto sarà tuttavia necessario gettare la maschera, evitare di nascondersi dietro il pretesto di interventi umanitari, manifestare apertamente le proprie ambizioni e accettare la fila di bare che tornano a casa ogni settimana. Ma ne saranno capaci, dopo che il mondo assiste sbigottito all’impantanamento a cui sono costrette le più grandi potenze militari della storia dopo un conflitto che dura da più di dieci in Afghanistan e Iraq?
Paolo Sensini
The Third Intifada
Aggiornamento del 17.05.2011
La Turchia, ha respinto le richieste di Israele di fermare la spedizione di 15 navi che porteranno aiuti umanitari nel più grande campo di concentramento del mondo mai esistito (Gaza conta 1.500.000 persone detenute in stato di indigenza senza generi alimentari e sanitari). Oltre alla richiesta fatta alla Turchia, Netanyahu lunedì scorso ha chiesto agli ambasciatori europei in Israele di fermare a tutti i costi la flottiglia.
Finora solo il premier italiano Silvio Berlusconi ha promesso ufficialmente di fermare la spedizione. (ma quanto è lecchino e pusillanime questo signore?), mentre solo il PDCI (Partito dei Comunisti Italiani) ha espresso profondo rammarico e proteste sotto l’ambasciata Israeliana a Roma chiedendo al nostro presidente (comunista e massone) in visita di cortesia in Israele, di protestare vivacemente con il governo Netanyahu. Figurasi se mai questo squallido personaggio è in grado di opporsi al padrone che lo nutre.
Infatti il suddetto presidente (comunista e massone) ha espresso nel suo incontro israeliano, che la costituzione dello stato di israele (in piccolo è doveroso) non fu un disastro umanitario, scordando però volutamente (forse è l’incipiente demenza senile che comincia a farsi sentire) che a seguito di quella dichiarazione (unilaterale) furono massacrati oltre 700.000 arabi (il numero è in difetto) e altre centinaia di miglia furono forzatamente trasferiti in altre zone, ai quali furono rubate e razziate le proprietà rimaste che vennero successivamente assorbite dai nuovi invasori (a qualcuno dovrebbe ricordare quello che accadde agli armeni e il loro stermino, sempre taciuto, compiuto dai seguaci di Sabbath Zevi – i Giovani Turchi – dei cripto-giudei convertitesi all’islam opportunisticamente, ma tenendo fede alla loro religione originaria, la legge talmudica!)
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Aggiornamento del 15.05.2011
Come volevasi dimostrare la irriducibile rudezza kazara israeliana ha applicato quanto da tempo andava minacciando: fuoco sui dimostranti, ad alzo zero, ovvero ad altezza uomo. Non importa se ci sono donne, bambini, o persone che nulla hanno a che vedere con i vari terroristi – inventati da israele e non – ma quello che avevano promesso lo hanno fatto, nella stessa maniera in cui avevano avvertito di ammazzare Vittorio Arrigoni!.
Israele ancora una volta dimostra la sua vera democrazia così come dal canto nostro avremo ancora i vari Pagliara ad annunciare che si sono difesi, che hanno difeso il loro diritto di esistere, perché uno stato fasullo, voluto e creato con un tratto di penna a danno dei loro abitanti, è più importante della vita di milioni di persone.
Questa è Israele e questa è la comunità internazionale che, si indigna per i massacri di Gheddafi (ancora non si sa quale siano e dove siano stati attuati), ma che di fronte a quelli compiuti dagli israeliani distoglie lo sguardo sul sangue versato da persone innocenti, desiderose solo di una terra, la loro terra, la loro nazione, la loro vita e la loro tranquillità, mentre sempre soggetti all’ostile, razzista, criminale e psicopatica azione vessatrice di uno stato iniquo.
Uno stato che con una legge (Nabka Law) ha introdotto delle regole che mette in condizione i palestinesi a subire l’umiliazione di sotto-popolazione inducendoli ad accettare le vessazioni del loro usurpatore, senza nessun diritto:
– tutti coloro (arabi/palestinesi) che non accetteranno pubblicamente o denigreranno la bandiera di Israele verranno puniti con la carcerazione di 3 anni;
– tutti coloro (arabi/palestinesi) che criticheranno lo stato di Israele e la sua democrazia avranno ridotti finanziamenti;
– in tutti i testi di storia israeliana il giorno della rabbia (nabka) viene rimosso così che non vi sia ricordo né trasmissione dello stesso alle generazioni future;
La legge, approvata ed introdotta ad ottobre del 2009 è stata successivamente modificata ed aggiornata a marzo del 2011.
Nel frattempo il nostro lacchè preposto al ministero degli esteri ha intimato a Gheddafi di farsi da parte altrimenti sarà il tribunale dell’Aia che lo incriminerà formalmente come criminale di guerra. Chissà se il suddetto lacchè avrà la stessa forza di chiedere a Benjamin Netanyahu di fare la stessa cosa.
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Nabka al-Nakba è il nome che viene dato dagli arabi in genere, e dai palestinesi in particolare, all’esodo delle popolazioni arabe intensificatosi a partire dal 15 maggio 1948, giorno a partire dal quale il Regno Unito si ritirò dalla Palestina e Israele, secondo il Piano di (s)partizione della Palestina contenuto nella risoluzione 181 dell’ONU del 29 novembre 1947.
Questa la storia, ma nella realtà Nabka è il senso profondo di frustrazione di dolore e di decenni di massacri e privazioni che i popoli abitanti la Palestina hanno sofferto e continuano a soffrire per le scelte volute e decise da altre nazioni (Usa, Gran Bretagna, Francia e Unione Sovietica) a favore di alcuni fanatici religiosi di fede ebraica-sionista per la creazione di uno stato fasullo (Fake-state).
La creazione di uno stato solo ed esclusivamente puro, di sola razza ebraica (che non esiste e non è mai esistita, si legga a tal proposito Shlomo Sand “L’invenzione del popolo ebraico”), con l’esclusione di tutti gli altri abitanti, anche di quegli ebrei nativi che con i palestinesi condividevano la stessa terra e le stesse radici. Pure questo genere di ebrei è, secondo il pensiero sionista, di seconda categoria, che non ha lo stesso valore di quelli che si ritengono i veri successori e proprietari assoluti di una terra a loro mai appartenuta.
Nabka è una data, 15 maggio, il giorno della terza Intifada dove milioni di arabi e non, potranno riunirsi e marciare verso Israele, lo stato fantoccio dei poteri Usraeliani, per ottenere la liberazione della striscia di Gaza e il ritorno di Gerusalemme ai loro legittimi proprietari.
Facebook “era” il megafono di questa ondata, ma già le grandi lobbies ebraiche americane a sostegno di Israele, tra le quali Pro-Israel lobbying, la Anti-Defamation League (ADL) e la grossa campagna Americano-Sionista hanno spinto il cofondatore di Facebook Zuckerberg a cancellare la pagina che incitava questa chiamata per la marcia della pace. In Facebook si può parlare di tutto, si può offendere tutti, diffamare tutti, sovvertire l’ordine in altri paesi come la Tunisia, l’Egitto, la Libia, la Siria il Barhein, lo Yemen, ma non si può mettere in dubbio l’integrità della falsità attraverso la quale si è fondato Israele.
Facebook quindi come altro organo di diffusione, controllato anch’esso, dalla lobby sionista attraverso il suo cofondatore Zuckerberg, limita il diritto di espressione e di pensiero sancito nella carta dei diritti dell’uomo. D’altronde visto quanto accade nei paesi occupati dall’esercito israeliano, cosa ci si potrebbe aspettare?
Giudaismo e sionismo sono incompatibili, ma stanno diametralmente su due posizioni differenti (Rav Ahron Cohen).
End the Occupation
La libertà ha un prezzo che deve essere pagato.
Vanunu Mordechai è un tecnico nucleare israeliano che nel 1986 rivelò al Sunday Times che Israele aveva un piano nucleare segreto e che all’epoca aveva 200 testate nucleari (armi di distruzioni di massa). A seguito di quella dichiarazione, mentre si trovava a Roma, venne rapito da un’agente del Mossad e con la compiacenza dei nostri servizi (!) e riportato in Israele con l’accusa di alto tradimento.
Da allora Mordechai ha subito tutta una serie di vessazioni una tra le quali quella di scontare 18 anni di carcere in isolamento. Al suo rilascio, nel 2004, gli venne imposto di:
- non può avere contatti con cittadini di altri paesi che non siano Israele
- non può avvicinarsi ad ambasciate e consolati
- non può possedere un telefono cellulare
- non può accedere ad Internet
- non può lasciare lo stato di Israele
Israele si proclama paese libero dal nucleare, ma in segreto si sta armando e i contributi alla ricerca e alla corsa agli armamenti provengono dalle tasse dei contribuenti americani.
Israele minaccia apertamente e senza ritegno che il male e il pericolo della sua esistenza è la presenza in Iran di fabbriche pronte a creare bombe atomiche che possono distruggere Israele.
Israele ha occupato dal 1948 ad oggi il 90% dei territori palestinesi, ha massacrato migliaia di persone in nome di una fede criminale, la fede sionista razziale e criminale.
Israele dal 2000 al 2009 ha ucciso 2.969 palestinesi attraverso l’occupazione militare illegale della Cis-Giordania (West Bank), dell’Est di Gerusalemme e della striscia di Gaza.
Arrigoni lavorava per un luogo comune dove ebrei, mussulmani e cristiani potessero vivere in pace, coltivando la stessa terra ed amando gli stessi bambini.
Si è chiesto e ottenuto la “No-Fly-Zone” per la Libia per salvare le persone dalle presunte persecuzioni delle truppe di Gheddafi sulla popolazione, ma non si è concessa agli abitanti di Gaza sottoposti a continui attacchi aerei di Israele.
Un pensiero su Arrigoni
Passato il Santo, passato il miracolo…o giù di lì.
La bara è rientrata, gli ordini dei giornalisti hanno fatto quadrato, la sinistra “democratica” ha sfilato per le vie cittadine con stendardi e bandiere e il feretro è stato innalzato alla statua della libertà perduta.
Questo è quanto è accaduto con la salma di Vittorio Arrigoni, morto per un idea, per una giustizia che non è di questo mondo, per un gruppo di persone massacrate e giustiziate giorno dopo giorno senza nessun appello.
Lui, uno dei pochi, l’unico degli italiani che ha sacrificato se stesso e la sua idea per l’onestà che altri hanno preferito lasciare sotto la coltre dell’indifferenza e della dabbenaggine.
Unico nel suo genere, astratto, esotico, ma simpatico e cordiale; sempre pronto alla spiegazione; critico ed aspro con i suoi nemici che non erano quelli dall’altra parte, ma l’idea dell’unicità, dell’unica ossessione sionista, onnipresente anche contro la vita di chi in quella terra martoriata ci è nato.
La sua bara adesso è nelle mani dei suoi famigliari che lo piangono in silenzio, che ne gustanio i ricordi e nel silenzio delle loro mura s’affliggono della perdita di un figlio che mai potrà dare la luce nel futuro della sua idea, perché strangolata in gola, strozzata dalla morsa feroce di gente che dell’umano essere non ne conoscono nemmeno le sembianze.
Gente venuta da altri mondi, educata dai sistemi virulenti del “noi siamo gli eletti e voi solo bestie“, di gente che non è gente, ma solo polvere nella polvere, di gente che morrà così come hanno tolto la vita a Vittorio, di gente che avrà le stesse sofferenze come in quelle che loro danno, di gente che non vedrà mai il proprio futuro ricco di una luce giovane e fresca, perché nelle loro azioni è annidiata l’impronta della tenebra.
Gente oscura, addestrata solo ad uccidere, incapace di amare, perché nell’amore ogni essere umano è debolmente affondato nell’altro, senza se e senza ma…e questo era Vittorio.
Il vero motivo della guerra in Libia.

Il valore del dollaro...
Quale può essere il fil rouge che collega tutti i paesi attaccati – e presi di mira in varie forme – dagli USA e Gran Bretagna con l’aiuto di una serie di ausiliari tradizionali più o meno consapevoli?
Libia, Libano, Siria, Irak, Somalia, Sudan, Iran. Non hanno in comune l’etnia ( Iran è ariano mentre gli altri sono semiti o – Sudan – misti).
Non hanno in comune la religione: Libano ha cristiani, l’Iran è sciita, la Siria è mista. Non il petrolio: Somalia e Siria non ne hanno in quantità significative. Non la ricchezza: Somalia e Sudan non lo sono.
Se invece vediamo il negativo, vediamo che nessuno di questi paesi figura tra i 56 aderenti alla Banca per i Regolamenti Internazionali. (BIS)
In pratica sono paesi che hanno rifiutato di far parte della comunità finanziaria internazionale e la Libia in particolare se la stava cavando molto bene:
- Stando ai dati del FMI la Banca centrale libica possiede 144 tonnellate di oro nei suoi forzieri. Per un paese di tre milioni e mezzo di abitanti, non è niente male. L’educazione e l’assitenza medica sono gratuite; le coppie che si sposano ricevono 50.000 dollari a fondo perduto.
- I Ribelli, ancora prima di costituire un governo provvisorio, hanno annunziato ( il 19 marzo) di aver costituito la BANCA CENTRALE DI LIBIA. La Banca centrale di Libia ( quella di Gheddafi per intenderci) è pubblica e non privata, stampa la moneta e presta denari allo stato senza interessi per finanziare le opere pubbliche tra cui il famoso fiume sotterraneo fatto dall’uomo che utilizza le acque fossili del Sahara per irrigare tutta l’area agricola della Libia che si trova al Nord. A proposito l’attività agricola in Libia è esentasse. Completamente. Questa politica è l’esatto contrario di quella seguita dal mondo occidentale che fa pagare tutti i servizi quali l’educazione e la sanità ed ha privatizzato le banche centrali che fanno pagare gli interessi agli stati quando forniscono loro i fondi.
- La ragione ufficiale che ha spinto l’occidente a non mantenere le Banche Centrali come pubbliche è che questi prestiti aumentano l’inflazione, mentre prendere prestiti dalle Banche estere o dall FMI , non provocherebbe inflazione. In realtà prendere i denari a prestito da Banche centrali pubbliche – senza interessi – riduce grandemente il costo dei progetti pubblici di investimento e in alcuni casi li riduce del 50%.
- Gheddafi aveva da poco lanciato la proposta di creare una moneta unica africana IL DINARO ORO e l’unico paese africano che si era opposto, è stata la Repubblica del Sud Africa, che è stata proprio quella che si è presentata a Tripoli per la mediazione con i ribelli e la NATO. Su questa proposta c’è un commento di Sarlosi che l’ha giudicata “una minaccia per l’Umanità”.
- Sia Saddam Hussein che Gheddafi avevano proposto – entrambi sei mesi prima dell’attacco – di scegliere l’Euro ( o il dinaro) come valuta per le transazioni petrolifere.
ADESSO RESTIAMO IN ATTESA DI VEDERE – IN CASO DI VITTORIA DELLA NATO – SE EDUCAZIONE E SANITA’ RESTERANNO GRATUITE, SE LA BANCA CENTRALE LIBICA ADERIRA’ ALLA B.R.I. E SE L’INDUSTRIA PETROLIFERA LIBICA VERRA’ SVENDUTA A PRIVATI. Poi anche i più ingenui cominceranno ad avere sospetti.
Fonte: corriere della collera.com
Razza pura.
Immaginiamo che nel mondo esista qualche democrazia in cui sia veramente bello viverci; immaginiamo che questo paese alberghi un senso comune di appartenenza e che sia abitato da persone di diversa estrazione sociale, provenienti dalle parti più disparate del globo. Il suo “popolo” è quindi un coacervo di culture, educazione, di tradizioni, ma la spinta che li aggrega e che li tiene uniti, anche contro le forze del male esterno, sta proprio in quell sottile ed impercettibile senso comune di appartenenza.
Questo paese lo potremmo posizionare in uno degli staterelli dell’America Latina, in una degli innumerevoli repubbliche ex-sovietiche, oppure in una zona qualsiasi dell’Africa ex-coloniale, oppure ancora in una zona qualsiasi del medioriente.
Il risultato non cambierebbe, perché le fondamenta democratiche avrebbero comunque la meglio, indipendentemente dalla sua posizione geografica. Questa democrazia è produttiva, attiva e solidale anche con i suoi vicini, con i quali lega accordi commerciali, culturali di interscambio; inoltre, data la libera circolazione delle idee democratiche, questa nazione è permeabile alle critiche costruttive, al cambio costante delle classi dirigenti quando queste non abbiano compreso il senso per il quale questa democrazia esiste. Quasi un’utopia, un’idea selvaggia anacronistica che potremmo pensare in un momento di estasi profonda, ma che si scontrerebbe con la realtà appena svegli.
Invece no, questo magico paese esiste ed è a pochi chilometri dalle nostre coste e produce irraggiungibili vette culturali e di tolleranza, parliamo ovviamente di Israele. Il paese più democratico del medioriente capace di sopravvivere nelle ostilità del mondo arabo e di saper far fronte alle richieste di democrazia con tolleranza e rispetto dei diritti dell’uomo.
Pochi giorni fa, però, a seguito di un evento tragico, il figlio di Ariel Sharon (Gilad Sharon) scrisse alcune righe su un giornale locale Yediot Acharonot <<Non dimentichiamoci con chi abbiamo a che fare. Possiamo prendere la selvaggia bestia palestinese e mettere loro una maschera sotto forma di qualche portavoce dal fluente inglese, ma ogni tanto, durante la luna nuova, i sensi selvaggi della bestia capiscono che è la sua notte scatenandosi a colpire la sua preda>>.

Gilad Sharon
E’ indubbio il senso democratico delle parole di Gilad Sharon. Nella pace del suo paese, nella democrazia riconosciuta dai maggiori paesi occidentali è necessario evidenziare le ostilità di alcuni selvaggi che tentano di sovvertire l’equilibrio millenario di una democrazia fondata sul rispetto e sulla tolleranza. Nessuno può accecare questa democratica nazione e se lo sono alcuni indigeni locali, tanto peggio per loro, perché non hanno capito che una libera nazione deve esistere anche a scapito dei diritti secolari degli indigeni. Non c’è spazio per le commiserazioni quando la bestia getta la maschera, perché la loro storia è nata sulla sia del Sionismo, prima non esistevano in quanto la loro definizione di popolo è insignificante senza la nostra presenza. Questi indigeni guardano a se stessi di riflesso alla immagine del popolo di Israele, alle sue conquiste e al suo progresso e tanto più si aumenta il divario maggiormente l’odio si incista nei loro pensieri.
Però, il bello della questione è che il figlio dell’autore della strage di Ṣabrā e Shātīlā oltre ad essere entrato a far parte del Kadima è anche stato denunciato per una tangente: le accuse nascono da un incidente nel 2001, durante le elezioni primarie del Likud. Ariel Sharon avrebbe ricevuto un contributo sulla campagna di gran lunga superiore al limite da Cyril Kern e Martin Schlaff. Omri e Gilad (i figli di Sharon) sono stati accusati di aver aiutato il padre a prendere i soldi.
Royal Bank of Scotland, nonostante i debiti ha anche l’ardire di criticare la Telecom
Siamo arrivati al paradosso finanziario.
La Royal Bank of Scotland, ho declassato la nostra Telecom da buy a hold.
Ma chi è la RBS (Royal Bank of Scotland) e sopratutto come sono stati i suoi andamenti borsistici in questi ultimi 3 anni? Beh, da marzo 2007 ad oggi questo gigante che si permette di giudicare la Telecom è passata da 703 pence a 41,81 con una perdita secca del 94%.
La banca ha in pancia svariati miliardi di sterline di debiti; è stata assorbita, anzi, nazionalizzata dal governo inglese (alla faccia del libero mercato e alla politica inglese sempre pronta a criticare e osteggiare le altre nazioni che dovrebbero “svendere” le proprie aziende).
La banca è tecnicamente fallita, salvata in extremis dalle tasse dei contribuenti inglesi che sudano sangue per mantenere in piedi un’economa asfittica carica di nubi tossiche (altro che Fukushima) (The British government finished with stakes of around 83 percent in RBS and 40 percent in Lloyds after it bailed out both banks with billions of pounds of taxpayers’ money during the credit crisis.) e dal sole24ore del 2009 (il governo inglese dovrà iniettare altri 31 miliardi di sterline nei due istituti di credito per condurli definitivamente verso la salvezza. Con questa nuova iniezione di capitale, il Tesoro salirà all’85% del capitale sociale di Rbs e garantirà gli asset tossici per i primi 60 miliardi ) e nonostante queste basi disastrose, quegli gnomi della city di Londra – uno dei più importanti paradisi fiscali del mondo che non è rientrato in quella famosa lista redatta dall’OCSE – hanno la faccia di “tola” di abbassare il rating (valutazione) della nostra Telecom.
Certo non è difesa della Telecom che non è più una vera azienda nazionale come lo era qualche anno fa, ma è pur sempre una delle aziende più importanti italiane e sentire le voci denigranti di chi ha le pezze al culo sulle cose nostre mi fa incannare più del dovuto.
Parmalat: il banco (le banche!) vince sempre.
Non poteva che andare in questa dolorosa maniera: le banche responsabili di aver piazzato milioni di euro a dei (quasi) ignari clienti hanno avuto ancora ragione del mercato finanziario. Nessun colpevole, nemmeno quelle invischiate nel pantano della truffa messa in piedi da Callisto Tanzi, il ladro.
Nel processo che oggi si è concluso a Milano nella seconda sezione penale, le banche (Citigroup, Morgan Slanley, Bank Of America e Deutsche Bank) ne sono uscite pulite, verginelle, senza onta e senza peccato.
La scuola massonica che imperversa nelle procure e nei settori delicati della finanza ha insegnato bene. Non toccare mai le banche, pericolo di morte! Certo morte fisica o civile, come nel caso di quegli investitori che si sono trovati con un pugno di mosche in mano, così come morte giuridica per i PM che avevano chiesto danni per 300 milioni di euro e che mai nessuno sborserà.
D’altronde se fossero state incolpate si sarebbe creato un precedente pericoloso che avrebbe trascinato in causa anche quelle banche che avevano piazzato i Bond Argentini o altra carta straccia di società ormai decotte, fallite come la Cirio di Cragnotti (osannato per il calcio!) e ve ne sono altre meno evidenti, come la CDWeb Tech di De Benedetti dove altre migliaia di persone persero valanghe di denaro, senza parlare della Telecom di Bernabé prima, di Colannino dopo, di Tronchetti a seguire e di Bernabé adesso. Anche in quest’ultimo caso sono passati diverse centinaia di milioni di euro con i soldi degli investitori e dei contributi italiani, ma i suddetti Bernabé, Colannino, Tronchetti sono ancora lì, pacifici e tranquilli a godersi i loro meritati guadagni.
La giustizia pensa sempre al cittadino di come salvaguardarlo
Vacanza alternativa: caccia al palestinese.
Anche in Italia abbiamo le scuole di sopravvivenza, che insegnano ad orientarsi e stabilire un equilibrio nella natura, ormai sconosciuta al 90% della popolazione.
Sono scuole adatte a persone crude, rudi, sempre pronte a mettersi alla prova, in cui il valore dell’individuo è stemperato nella salvezza del gruppo. Ci sono altre scuole, sempre sullo stesso filone, che invece mettono alla prova le persone più dotate fisicamente, in cui il contatto con gli elementi naturali e gli imprevisti del corso possono anche essere, a volte, deleteri per il fisico. Ma parliamo di scuole italiane dove non c’è un vero nemico ed anzi, spesso il nemico è la paura che alberga nelle persone ormai strappate dal loro ambiente e non più capaci di ascoltare, di vedere, di annusare. E’ la paura dell’ignoto, sopito dalle migliai di note musicali, dagli spinelli, quando va bene, e spesso inacidità dalle molteplici pillole colorate dello sballo del sabato. E’ l’uomo del XXI°.
Ma la vacanza è sacra, costi quel che costi e se a proporla è una ditta israeliana, paese democratico ed esotico con belle ragazze disinibite, pronte a far sesso e a condividere anche qualche esperienza vacanziera allora non si può esitare. Si parte e si va. Il costo non è eccessivo per quel che viene offerto. Si va da poche centinaia di euro a qualche migliaio, ma ne vale la pena!!
L’offerta parte da un incontro sintetico, in cui vengono esposti i punti principali in cui si svolgerà la missione.
The Ultimate Mission to Israel
- Briefings con gli ufficiali del Mossad e comandanti dello Shin Beth.
- Briefing con gli ufficilai dell’IDF (esercito israeliano) e con i gli ufficiali dei servizi dell’IDF.
- Giro turistico nelle forze aeree israeliane (IAF) per capire come compie i suoi attacchi mortali.
- Rappresentazione dal vivo di come vengono compiute le penetrazioni nei territori arabi.
- Osservare una prova di un terrorista di Hammas in un tribunale militare dell’IDF.
- Visite sulle posizioni militari della frontiera libanese e nei punti di controllo della Striscia di Gaza.
- Visite all’interno del controverso Muro d i sicurezza e dentro alle basi segrete dell’intelligence.
- Incontro con gli agenti arabi infiltrati nei gruppi terroristici provando un reale interrogatorio.
- Incontro con gli “eroi” israeliani che hanno salvato il paese.
- Incontri con il Gabinetto dei ministri e di altri responsabili politici .
- Tour aereo nella Galilea, gite in jeep sulle alture del Golan, attività nautiche sul lago di Kinneret, barbecue, uno Shabbat per apprezzare le meravigliose ricchezze religioso-storiche della Città Vecchia di Gerusalemme.
Costo: 2.835 USD$/Person+ una obbligatoria donazione (?) tra i 500/5.000$USD.
Questa una delle missioni, a seguire ce ne sono altre più impegnative e pericolose, ma ne vale la pena come la The Ultimate Intelligence Mission in cui i partecipanti vivono una esperienza indimenticabile di come trattate e colpire senza pietà i nemici di Israele.
Costo: 3.195 $USD + obbligatoria donazione tra i 500/5.000 $USD.
La gente dice…