Fiat, azienda privata di Stato.
Quello che sta accadendo è il prodromo di un mercato della carne umana a valore di saldo. All’Italia non serve la qualità, ma serve un’industria che sappia far lavorare le macchine e quando serve, se servirà anche gli uomini, pardon, le macchine-uomo.
La guerra che in questi mesi si combatte – ma che viene da molto lontano, all’epoca della scelta di Fiat di approdare in Usa – è molto probabile che vedrà vincitore l’italo-canadese di Sergio Marchionne.
I conti sono presto fatti “O fate come voglio io o chiudo“.
L’epoca dei padroni con la frusta, con la minaccia del licenziamento o quando peggio dello stupro di fabbrica sul personale femminile, non ha mai termine e anche adesso nel XXI° secolo il lupo perde il pelo ma non il vizio. Comanda lui, è a casa sua e della “sua” azienda fa quel che vuole, anche contro migliaia di persone che per decenni hanno contribuito a fare guadagni stellari.
Molti lamentano i guadagni dell’amministratore Marchionne (190.000.000 di euro all’anno) che sicuramente sono altissimi – €. 520.547 al giorno – ma dimenticano che in decenni la Fiat ha ricevuto dallo stato italiano (tutti noi) diverse centinaia di miliardi praticamente a fondo perduto e che nello stesso tempo, proprio per il problema di dove piazzare le migliaia di lavoratori che la Fiat intendeva sbolognare, si è sfruttata senza il minimo controllo la vera panacea per i mali dei padroni: la Cassa Integrazione (pagata in minima percentuale dalle aziende).
E’ pacifico quindi, se si aggiungono i miliardi pagati dall’INPS a favore dei dipendenti della Fiat in Cassa Integrazione e quelli percepiti come finanziamento agli investimenti, successivamente dismessi e ripagati a tassi insignificanti, l’azienda torinese e con essa il nocciolo azionario di potere (famiglia Agnelli), ha realizzato un guadagno che ha avvantaggiato solo la Fiat, ma ha limitato lo sviluppo di tutte le altre nel poter usufruire degli stessi vantaggi.
Come si sa Marchione ha posto una linea di confine netta e senza troppi fronzoli, sapendo benissimo che il lavoro in Italia è scarso, che la fame è tanta e che la gente è ormai abituata ad avere tante cose, spesso inutili, ma che danno loro la sensazione di sentirsi “signori“, quando invece sono impelagati in una rete di schiavitù. In questa situazione il bravo lavoratore di Marchionnesi si è posto dietro alla bestia: il licenziamento delle maestranze, ovvero prendere per le palle la bestia (i lavoratori) serrare la mano in maniera molto forte e fare schizzare gli occhi dalle orbite finché decideranno per il sì.
Lo stato latita.
Assenza, nessuna dichiarazione se non da qualche lecca-culo di turno della qualità di Sacconi (traditore delle sue origini socialiste) o di qualche animoso, ma ben foraggiato sindacalista quale Bonanni e Angeletti; la Musso urla, sbraita, ma tutti prodighi nel dimostrare che la teoria di Marchionne è quella giusta e che la Fiom che pare l’unica voce fuori dal coro con Airaudo e Landini, a spiegare quello che effettivamente non va, ma perennemente accecata dalla lotta di classe, anche se la sensazione è che sia uno strillo “guidato” fatto apposta per portare le masse a votare sì).
Tutti perdono di vista una unica cosa, sacra come la vita di tutti che compongono questa questione: può un’azienda con migliaia di persone agire in maniera dissennata e chiudere in quattro e quattrotto gli stabilimenti lasciando sul lastrico personale, aziende terziste e quant’altro?
Qual’è il valore capitale di un’azienda che suppone di aver una maggior dignità dei suoi collaboratori (alias, schiavi) e di tuttuo l’indotto che ha creato nel corso dei decenni? Possibile che anche lo stesso Chiamparino – sindaco di Torino – supinamente accondiscenda alla capitalistica azione sfruttatrice di un’azienda venendo meno alle sue origini comuniste e alla socialità del lavoro?
Insomma il valore di un’azienda non si traduce solo con il profitto, che è sacro, ma anche nella integrazione con il territorio, con la società in cui l’azienda è inserita; e la tela creata dalle sue attività sono la trama sana sulla quel nessuno potrebbe scherzare, tanto meno i governanti che avrebbero l’obbligo di porre un freno e un ALT alle scelte criminali e speculative di Marchionne. Si è cercato il paravento della partecipazione collettiva degli utili dell’azienda prendendo per il collo miglia di persone e un intero paese.
Lo spessore della qualità di un’azienda si vede da quello che produce e da come lo produce, non solo dagli utili, che spesso vengono celati per finire poi in stipendi stellari, mascherati come costi; la qualità è anche quella della vita di chi partecipa attivamente alla produzione, al benessere degli imprenditori e delle loro famiglie e non è solo quella del pezzo finito fine a se stesso.
E pertanto evidente che in una globalizzazione selvaggia a vantaggio di alcuni piccoli cialtroni, ladri di polli con le scarpe sporche e l’alito fetido, non si possa pretendere che abbiano attenzione per chi (gli operai) come loro hanno investito una vita di lavoro dando sangue e sudore per il benessere (spesso sbilanciato) a tutti, imprenditore compreso.
Il valore sociale di una qualsiasi azienda è pertanto preminente sugli interessi privati, anzi è proprio nelle grandi aziende che l’interesse privato deve stemperare la sua perenne ed agoniata idea dell’utile, costi quel che costi. In quest’ottica che non deve leggersi come un’idea comunista, ma bensì nel concetto di divisione degli utili affinché tutti siano equiparati allo stesso livello di renanio ricordo. L’operaio mette la sua faccia, il suo corpo, il suo studio, la sua abilità e la sua forza fisica per il lavoro, in cambio riceve una paga spesso sottodimensionata, per contro l’imprenditore investe del denaro, del capitale “umano” fatto di persone che conoscono le strategie per affrontare il mercato e per spiazzare la concorrenza e tutte e due le figure concorrono per un unico obbiettivo: il proprio benessere.
La differenza però è accentuata in maniera evidente perché nel caso del fallimento aziendale accade sempre che l’operaio rimane a casa, si trova in strada e se ha fortuna troverà un lavoro pagato meno ed a tempo determinato. La sua famiglia ne soffrirà, ma questa è una regola del gioco.
L’altro, l’imprenditore, che spesso ha costituito la sua ditta come SRL, SPA, SAS una volta che l’azienda chiude accade spesso che la riapra sotto altro nome e con un numero di personale più basso e meno pagato di prima, quando va bene, ma spesso, dopo anni di sudorati guadagni (?) ed avendo già messo al sicuro il suo gruzzoletto, potrà godersi gli ultimi anni di vita senza patemi d’animo.
La differenza sta proprio lì: uno investe se stesso, l’altro investe cose d’altri e sopra ci gudagna pure. Alla fine dei conti chi ci guadagna è spesso solo ed esclusivamente l’imprenditore.
Si può cambiare? Sì! E’ sufficiente che i suddetti sindacalisti facessero meno i lecca-culo e lavorassero per il bene NON delle maestranze, ma per il benessere della società in cui siamo inseriti, ovvero che attuassero una piccola riforma sulle società annullando qualsiasi sigla rimettendo agli imprenditori la propria responsabilità personale in tutto quel che fanno. Invece sappiamo che le resposanbilità aziendali hanno cavilli giuridici e societari così complessi che spesso non entrano nemmeno nelle aule del tribunale fermandosi alla conciliazione tra le parti. Basterebbe questo, ma sappiamo che lo stato odierno è compiacente o alimentato da quella classe di idocchiosi che credono di essere la colonna portante della nostra economia, ma che altro non sono che una semplice masnada di filibustieri travestiti da imprenditori con la evve moscia.
La gente dice…